UNA DOMENICA

 



Il sole stava tramontando quando finalmente varcammo la soglia di casa, e la stanchezza mi avvolgeva come una pesante coperta.

"Ragazzi, andate subito a lavarvi le mani," dissi ai miei figli, Luca e Sofia, mentre si trascinavano
all'interno. "Io preparo qualcosa di veloce per cena."

Mi diressi verso la cucina, sentendo le gambe pesanti dopo il lungo viaggio. Fu allora che notai mio
marito, Marco, che si lasciava cadere pesantemente sul divano.

"Laura," mormorò, la voce roca. "Non mi sento granché. Credo di avere un po' di febbre."

Mi voltai a guardarlo, notando il suo volto pallido e gli occhi lucidi. Un brivido mi percorse la schiena,
ma lo attribuii alla stanchezza.

"Vuoi un'aspirina?" chiesi, già pensando a dove avessi riposto la scatola dei medicinali.

Marco scosse debolmente la testa. "No, mangio qualcosa e vado a letto. Passerà."

La cena fu un affare rapido e silenzioso. I bambini sbadigliavano tra un boccone e l'altro, e Marco toccava a malapena il suo piatto. Io stessa sentivo gli occhi che si chiudevano mentre cercavo di finire il mio pasto.

"Mamma, posso andare a letto?" chiese Sofia, la voce impastata dal sonno.

"Certo, tesoro," risposi, alzandomi con uno sforzo. "Vi accompagno subito."

Guardai i piatti sporchi che si accumulavano nel lavello e sospirai. "Li laverò domattina," pensai, troppo
esausta per affrontare il compito quella sera. Non potevo immaginare che quella semplice decisione
avrebbe cambiato tutto.

Dopo aver messo a letto i bambini, raggiunsi Marco in camera. Lo trovai già sotto le coperte, tremante
nonostante il caldo della serata.

"Come ti senti?" chiesi, sedendomi accanto a lui e posando una mano sulla sua fronte. Era bollente.

"Ho freddo," mormorò, gli occhi socchiusi. "E ho una sete terribile."

"Cerca di riposare," dissi, accarezzandogli i capelli. "Vedrai che domani starai meglio."

Quella notte, mentre il sonno mi avvolgeva, non potevo sapere che qualcosa di sinistro stava prendendo vita nella nostra cucina. Nel buio, nell'acqua stagnante del lavello, tra i residui di cibo e le macchie di grasso, miriadi di batteri proliferavano a un ritmo allarmante. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa di più oscuro e letale che stava nascendo da quella melma putrida.

Mi svegliai all'alba, disturbata da un rumore. Vidi Marco che barcollava fuori dalla stanza, probabilmente diretto in bagno. Volevo alzarmi per aiutarlo, ma il sonno mi trascinò di nuovo nei suoi abissi.

Quando riaprii gli occhi, il sole filtrava già attraverso le tende. Mi sentivo stranamente debole, la testa mi pulsava e la gola mi bruciava. 

"Devo aver preso anch'io qualcosa," pensai mentre mi alzavo a fatica.

Nonostante il malessere, mi trascinai in cucina per preparare la colazione ai bambini. Luca mi guardò con occhi preoccupati mentre gli versavo il latte nei cereali.

"Mamma, non ti senti bene?" chiese, la sua piccola fronte corrugata dalla preoccupazione.

Forzai un sorriso. "È solo un po' di stanchezza, tesoro. Niente di cui preoccuparsi."

Ma mentre li accompagnavo alla porta, sentivo che qualcosa non andava. Il mio corpo sembrava pesante,come se stessi camminando sott'acqua.

"Andate a scuola, ci vediamo nel pomeriggio," dissi, baciandoli sulla fronte. Non potevo immaginare che quello sarebbe stato il nostro ultimo saluto.

Una volta soli, chiamai l'ufficio. La mia voce suonava strana alle mie stesse orecchie. "Mi dispiace, oggi non posso venire. Non mi sento bene."

Le ore passarono in una nebbia di disagio e preoccupazione crescente. Marco non si era ancora alzato, e il silenzio nella casa sembrava oppressivo.

Verso le 11, non riuscendo più a sopportare l'incertezza, mi diressi verso la nostra camera da letto. Il cuore mi batteva forte nel petto, come se sapesse già cosa avrei trovato.

"Marco?" chiamai, entrando nella stanza buia.

Non ci fu risposta.

Con mani tremanti, mi avvicinai al letto. Marco giaceva immobile, il viso rivolto verso la finestra.
Delicatamente, gli toccai la fronte.
Il grido che uscì dalle mie labbra sembrò appartenere a qualcun altro. La sua pelle era fredda,
innaturalmente fredda. E c'era un odore... un odore che non avrei mai dovuto sentire nella nostra camera da letto.

Con movimenti frenetici, corsi ad aprire la finestra, lasciando entrare la luce del sole e l'aria fresca. Ma
quando mi voltai a guardare Marco, il mio mondo si sgretolò.
I suoi occhi erano aperti, vitrei, fissavano il vuoto. Il suo petto non si muoveva.

Marco, il mio Marco, era morto.

Il mondo intorno a me sembrava rallentare, ogni respiro una lotta contro l'orrore che minacciava di
sopraffarmi. Marco era morto. Il mio Marco. E io ero lì, immobile, incapace di processare la realtà di ciò che stavo vedendo.

Fu un rumore a scuotermi dal mio stato di shock. Un suono nauseante, umido, che proveniva dal corpo di Marco. Con orrore, vidi il suo addome cominciare a muoversi, gonfiarsi in modo innaturale.

"No," sussurrai, indietreggiando. "No, no, no..."

Il movimento divenne più frenetico, la pelle tesa fino al limite. Poi, con uno schiocco raccapricciante che risuonò nella stanza come uno sparo, l'addome di Marco esplose.

Urlai. Un grido primordiale di terrore puro che mi lacerò la gola. Dalla cavità aperta del corpo di mio
marito emerse una nuvola di falene, creature orribili e maleodoranti che riempirono l'aria con un ronzio
sinistro.

Inciampando all'indietro, cado a terra, le mani che cercano freneticamente di allontanare quelle creature da me. Le sento sfiorarmi il viso, il collo, le braccia, lasciando una scia di polvere viscida sulla mia pelle.

In preda al panico, mi alzo e corro fuori dalla stanza, giù per le scale, verso la cucina. Ho bisogno di
chiamare aiuto, di fare qualcosa, qualsiasi cosa.

Le mani tremanti afferrano il telefono, ma prima che possa comporre un numero, squilla. Il suono mi fa sobbalzare, e per un momento resto immobile, fissando l'apparecchio come se fosse un serpente pronto a mordere.

Alla fine, rispondo. "P-pronto?" La mia voce è un sussurro roco.

"Signora Moretti?" La voce della bidella della scuola mi giunge come da un altro mondo, distante e
irreale. "Deve venire a prendere i suoi figli. Stanno molto male."

Il telefono mi scivola dalle mani, cadendo sul pavimento con un tonfo sordo. Luca e Sofia. I miei
bambini. No, non anche loro.

È in quel momento che lo vedo. Il lavello. L'acqua stagnante ribollisce di vita aliena, una massa pulsante di qualcosa che non dovrebbe esistere. E improvvisamente, tutto ha un senso orribile. Il contagio. Si è diffuso. Prima Marco, poi io, e ora... i bambini.

Un dolore lancinante mi trafigge l'addome, facendomi piegare in due. Cado in ginocchio, ansimando. So cosa sta per succedere. Lo stesso destino di Marco mi attende.

"No," sussurro, le lacrime che mi rigano il viso. "Per favore, no. I miei bambini... devo aiutare i miei
bambini."

Ma è inutile supplicare. Il virus ha vinto. Sento la mia pelle tendersi, il dolore che cresce fino a diventare insopportabile. Con l'ultimo barlume di coscienza, il mio pensiero va ai miei figli. Spero, in qualche modo impossibile, che siano stati risparmiati da questo orrore.

L'ultimo suono che sento è lo strappo della mia carne. L'ultima cosa che vedo è una nuvola di falene che emerge dal mio corpo, volando verso la finestra aperta della cucina.

Poi, solo oscurità.

Non sono più consapevole, ma il contagio continua. Le falene, portatrici di morte, si diffondono per la
città. Ciò che è iniziato con alcuni piatti sporchi in un lavello diventa l'epicentro di un'epidemia che presto inghiottirà l'intera città.

E tutto perché, una domenica sera, ero troppo stanca per lavare i piatti.

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