Una Notte a Grado

 

 

Il chiosco sulla spiaggia di Grado brillava come un faro nella notte estiva, un'oasi di luce e vita in mezzo all'oscurità che avvolgeva la costa. Seduta su uno sgabello di legno consumato dal sale, osservavo distrattamente il barista preparare il mio terzo Negroni della serata. Le sue mani esperte danzavano tra le bottiglie, mescolando gin, vermouth rosso e Campari in un vortice ipnotico di rosso cupo.

"Ecco qui, signorina," disse, spingendo il bicchiere verso di me con un sorriso stanco. "Ma vada piano, eh? La notte è ancora giovane."

Annuii distrattamente, portando il drink alle labbra. Il sapore amaro e complesso esplose sulla mia lingua, un contrasto perfetto con la dolcezza dell'aria marina. Chiusi gli occhi, assaporando il momento di quiete. Erano quasi le dieci di sera, e la spiaggia si era svuotata, lasciando solo qualche coppia romantica a passeggiare lungo la battigia e gruppetti sparsi di adolescenti che ridevano e scherzavano attorno a falò improvvisati.

Fu allora che lo sentii. Un grido acuto, disperato, che squarciò la tranquillità della notte come un coltello.

"Papà! PAPÀ! Dove sei?"

Mi voltai di scatto, cercando l'origine di quel suono straziante. A pochi metri dal chiosco, una bambina - non poteva avere più di sei o sette anni - stava in piedi sulla sabbia, le mani premute sugli occhi, il corpo scosso da singhiozzi incontrollabili.

"I miei occhi! Non ci vedo più! PAPÀ, AIUTO!"

In pochi istanti, una piccola folla si formò intorno alla bambina. Potevo sentire i mormorii preoccupati, le domande ansiose:

"Di chi è questa bambina?" "Dov'è suo padre?" "Qualcuno chiami un medico!"

Mi alzai dallo sgabello, incerta se intervenire o meno. Fu allora che notai una giovane donna farsi largo tra la folla. Indossava una maglietta con il logo di un campeggio vicino e si muoveva con l'autorità di chi sa cosa fare in situazioni del genere.

"Tranquilla, piccola," la sentii dire con voce calma e rassicurante. "Sono un'animatrice del campeggio qui vicino. Ti aiuto io a trovare il tuo papà, va bene?"

La bambina annuì debolmente, ancora singhiozzando. L'animatrice le prese delicatamente la mano, guidandola lontano dalla folla che lentamente si disperdeva, tornando alle proprie serate e ai propri drink.

Tornai al mio sgabello, ma l'atmosfera rilassata di prima era svanita. Continuavo a ripensare alla scena a cui avevo assistito, al terrore nella voce della bambina, alla strana facilità con cui si era lasciata portare via da una sconosciuta.

"Un altro?" chiese il barista, indicando il mio bicchiere ormai vuoto.

Esitai un attimo, poi annuii. "Sì, grazie. Ne ho bisogno dopo quello che è successo."

Mentre il barista preparava il drink, mi voltai verso la spiaggia. La notte sembrava più scura ora, le ombre più profonde. Un brivido mi percorse la schiena, nonostante l'aria tiepida.

Il tempo sembrava scorrere in modo strano quella notte, dilatandosi e contraendosi come le onde del mare. Persa nei miei pensieri, non mi ero resa conto che era passata quasi mezz'ora da quando l'animatrice aveva portato via la bambina. Fu solo quando sentii di nuovo quel grido straziante che tornai bruscamente alla realtà.

"PAPÀ! PAPÀ!"

Mi voltai di scatto, il bicchiere ancora in mano. Lì, sulla stessa porzione di spiaggia di prima, c'era di nuovo la bambina. Sola. Senza l'animatrice. Gli occhi ancora chiusi, il viso contorto in una maschera di dolore e paura.

"Ma che diavolo..." mormorai, mettendo giù il drink e alzandomi.

Questa volta, la reazione della gente intorno fu diversa. C'era confusione, sì, ma anche un senso di déjà vu inquietante. Vidi alcuni scambiarsi sguardi perplessi, altri scuotere la testa increduli.

"È la stessa bambina di prima?" chiese una voce nella folla. "Dov'è l'animatrice che l'aveva presa in custodia?" domandò qualcun altro.

Mi avvicinai lentamente, cercando di capire cosa stesse succedendo. Fu allora che notai qualcosa di strano: le lacrime della bambina sembravano... diverse. Più scure. Quasi rossastre sotto la luce fioca dei lampioni della spiaggia.

Una donna di mezza età, con un'espressione di determinazione sul viso, si fece avanti. "Basta con questo circo," disse ad alta voce. "Qualcuno deve prendersi cura di questa povera creatura una volta per tutte."

Si avvicinò alla bambina, le parlò dolcemente e, dopo averla calmata un po', la prese per mano. "Andiamo a cercare tuo padre, tesoro," la sentii dire mentre si allontanavano.

Tornai al chiosco, la testa che mi girava. Non era solo l'alcol, ne ero certa. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta quella situazione.

"Ehi," chiamai il barista. "Hai visto quello che è appena successo?"

L'uomo annuì, l'espressione cupa. "Strano, vero? Mai visto niente del genere in tutti i miei anni qui."

"Non ha senso," dissi, più a me stessa che a lui. "Come può essere di nuovo qui? E dov'è finita l'animatrice?"

Il barista si strinse nelle spalle. "Guardi, signorina, ho imparato che ci sono cose che è meglio non indagare troppo. Specialmente di notte, specialmente in posti come questo."

Le sue parole mi misero i brividi. Stavo per chiedergli cosa intendesse, quando la vidi di nuovo.

La bambina. Stava camminando lungo la battigia, gli occhi ancora chiusi, le braccia tese davanti a sé come se cercasse di orientarsi. Ma questa volta non gridava. Non piangeva. Camminava con uno scopo, come se sapesse esattamente dove stava andando.

Senza pensarci due volte, mi alzai dallo sgabello. "Devo andare," dissi al barista, che mi guardò con un misto di preoccupazione e rassegnazione.

"Stia attenta," fu tutto ciò che disse.

Cominciai a seguire la bambina, mantenendo una certa distanza. Il mio cuore batteva forte, una parte di me urlava di tornare indietro, di dimenticare tutto questo. Ma non potevo. Qualcosa mi spingeva avanti, verso un mistero che sentivo di dover risolvere.

La bambina si diresse verso il campeggio adiacente alla spiaggia. La luce della luna illuminava il suo cammino, gettando ombre inquietanti. Mentre ci addentravamo tra le roulotte e le tende, un senso di oppressione cominciò a stringermi il petto.

Fu allora che la bambina svoltò in un vicolo buio tra due edifici del campeggio. Esitai per un momento, poi la seguii. L'oscurità mi avvolse, e per un attimo persi di vista la piccola figura che stavo inseguendo.

Quando i miei occhi si abituarono al buio, vidi qualcosa che mi gelò il sangue nelle vene. La bambina era ferma, immobile come una statua. E davanti a lei...

Un furgone nero, i finestrini oscurati, il motore acceso che ronzava sommessamente nella notte.

In quel momento, capii che mi ero spinta troppo oltre. Che avevo messo piede in qualcosa di molto più grande e terribile di quanto potessi immaginare. Ma era troppo tardi per tornare indietro.

Le portiere del furgone si aprirono...

Il mio corpo si paralizzò mentre due figure incappucciate scendevano dal furgone. I loro movimenti erano fluidi, precisi, come predatori pronti a scattare. In quell'istante, il mio istinto di sopravvivenza prese il sopravvento.

Mi voltai per fuggire, ma i miei piedi inciamparono su qualcosa - una radice, un sasso, non lo so. Caddi pesantemente, l'impatto con il terreno mi tolse il fiato. Prima che potessi rialzarmi, mani forti mi afferrarono, trascinandomi verso il furgone.

"No! Lasciatemi!" gridai, la voce strozzata dal panico. Ma le mie urla furono soffocate da un bavaglio ruvido premuto contro la mia bocca. Un cappuccio nero mi calò sugli occhi, privandomi della vista.

Mi sentii sollevare e gettare nel retro del furgone. L'odore di metallo e sudore mi assalì le narici. Non ero sola. Potevo sentire i respiri affannati, i gemiti soffocati di altre persone intorno a me.

Una voce roca parlò in italiano stentato: "Siamo pieni, possiamo andare."

Il motore ruggì e il furgone si mosse, portandoci verso un destino sconosciuto. Durante il viaggio, i miei pensieri vorticavano in un turbine di terrore e confusione. Cosa stava succedendo? Chi erano queste persone? E la bambina... era stata solo un'esca in un piano più grande?

Il tempo perse significato nell'oscurità del cappuccio. Potevano essere passate ore o minuti quando finalmente il furgone si fermò. Ci fecero scendere rudemente, spingendoci in quello che sembrava un edificio.

Ci ammassarono in una stanza. Anche senza poter vedere, percepivo la paura palpabile nell'aria. Uno alla volta, sentivo le persone intorno a me essere portate via. Ogni mezz'ora circa, passi si avvicinavano, qualcuno veniva preso, e non tornava più.

Quando arrivò il mio turno, il terrore mi paralizzò. Mi sollevarono di peso, trascinandomi attraverso corridoi che echeggiavano dei miei passi incerti. Potevo sentire l'odore di disinfettante misto a qualcosa di metallico e dolciastro che non riuscivo a identificare.

Improvvisamente, mi strapparono via il cappuccio. La luce accecante mi fece strizzare gli occhi. Quando riuscii a mettere a fuoco, il mio stomaco si contorse per l'orrore.

Mi trovavo in una stanza che sembrava uscita da un film dell'orrore. Al centro c'era un tavolo di metallo macchiato di rosso scuro. L'aria era densa di un odore ferroso che riconobbi istintivamente: sangue.

Due uomini in camici sporchi mi afferrarono, sollevandomi sul tavolo. Il freddo del metallo penetrò attraverso i miei vestiti, facendomi rabbrividire. Lottai, ma le cinghie di cuoio mi immobilizzarono rapidamente.

Un uomo si avvicinò, un bisturi in mano. Il suo camice era così impregnato di sangue che a malapena si distingueva il colore originale.

"Abbiamo finito l'anestesia," disse una voce alle sue spalle.

L'uomo col bisturi imprecò, posando lo strumento accanto a me. Si voltò, frugando in un armadietto nelle vicinanze.

Il mio cuore batteva così forte che temevo potesse esplodermi nel petto. Con uno sforzo disumano, riuscii a muovere la mano abbastanza da afferrare il bisturi. Il metallo freddo mi diede una strana calma.

In un attimo di adrenalina pura, tagliai la cinghia che mi teneva il braccio. L'uomo si voltò, sorpreso. Non esitai. Il bisturi affondò nella sua carne, e lui cadde con un grido strozzato.

Mi liberai freneticamente, saltando giù dal tavolo. Corsi fuori dalla stanza, il cuore che mi martellava nelle orecchie. I corridoi sembravano un labirinto infinito, ogni svolta portava a un'altra identica.

Svoltai un angolo e mi bloccai di colpo. Davanti a me c'era una porta socchiusa, da cui filtrava una luce fioca. Spinta da una forza che non capivo, entrai.

La stanza era identica a quella da cui ero fuggita. Un tavolo di metallo al centro, strumenti chirurgici sparsi intorno. Ma ciò che vidi sul tavolo mi fece gelare il sangue nelle vene.

Ero io.

Il mio corpo giaceva immobile, gli occhi chiusi, il petto che si alzava e abbassava debolmente. Un team di medici - o macellai - lavorava freneticamente intorno a me.

La realizzazione mi colpì come un pugno allo stomaco. Non mi ero mai liberata. Tutto - la fuga, la corsa nei corridoi - era stato solo un'allucinazione, un ultimo, disperato tentativo della mia mente di sfuggire all'orrore.

Mentre la consapevolezza mi travolgeva, sentii la mia coscienza scivolare via. L'ultima cosa che vidi fu il mio stesso viso, pallido e immobile sul tavolo operatorio, prima che l'oscurità mi inghiottisse completamente.

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